La violenza
e Nicolas Winding Refn.
Una storia d’amore
con un legame incredibilmente profondo.
L’occhialuto regista danese riesce a
dirigere la violenza con un’eleganza sopraffina, ma soprattutto riesce a
dirigerla in tantissimi modi diversi: la racconta tramite dei pusher danesi
nella trilogia cult, omonima; la racconta tramite un personaggio fuori dalle
righe come Charles Bronson; la può
raccontare con delle atmosfere noir romanzate come fatto in “Drive”.
Nel 2013 Refn decide di raccontare la violenza in
un modo più implicito… e gli snob di Cannes, a fine visione, criticarono
pesantemente il regista con dei fischi tanto assordanti quanto immeritati.
Refn se ne frega di tutto e di tutti e,
dopo il successo di critica (proprio a Cannes due anni prima) e di pubblico,
decide di fare qualcosa di completamente diverso prendendo tutte le idee più
intriganti nelle sue precendenti opere, sviluppandole e trasformandole in
un’idea puramente underground.
Se in “Bronson”, la violenza è il veicolo che
usa per giungere all’arte, qui, in “Solo
Dio perdona”, Refn prende la violenza
e la tratta come un’arte con delle regole proprie e cinematograficamente
anticonvenzionali.
Estremizza
all’inverosimile le scelte stilistiche che c’erano in “Drive” e prosciuga la narrazione e i dialoghi in maniera ancor più
radicale di quanto già fatto in “Valhalla
Rising”.
Refn cambia completamente prospettiva e
sceglie di intraprendere la strada di un cinema che vive in un suo mondo ben
preciso e che va aldilà del bene e del male, dirigendo un film che se ne sbatte
delle idee esplicative del mondo del cinema mainstream (soprattutto
Hollywoodiano) mettendo in scena una storia di vendetta puramente implicita ed
incredibilmente ermetica: la recitazione degli attori e, specialmente di uno
degli attori più in voga del momento come Ryan
Gosling, costretto a comunicare esclusivamente con il corpo, con una o
massimo due espressioni facciali; l’incredibile simbolismo, il tutto
appesantito da diversi riferimenti alla psicanalisi (la scena in cui il
personaggio di Gosling lacera
l’addome della madre e inserisce la mano nel profondo taglio è di una potenza evocativa
pazzesca); l’ossessivo gioco di luci (già intravisto nella seconda e, purtroppo,
sconclusionata parte di “Fear X”),
che immerge tutto il revenge-movie
con dei continui e fortissimi contrasti rendendo la pellicola quasi un quadro
in movimento impressionista; la colonna sonora, composta da Cliff Martinez, è incredibilmente
azzeccata con queste sonorità dark-ambient
che raggiungono il picco massimo con il pezzo “Wanna fight”, che accompagna una delle scene d’azione meno
spettacolari di sempre, ma, paradossalmente, una delle più artistiche di
sempre.
Capisco che,
specialmente dopo il grande successo di “Drive”,
gran parte del pubblico si aspettava un suo seguito ideologico, mentre il
regista ha scelto tutt'altra strada, realizzando un film fatto di pochi
dialoghi e di molti, moltissimi sguardi.
Non è un
film facile e di diretta lettura, anzi, è un film molto crudo e difficilmente
fruibile nella sua ingegnosa ricercatezza ma d’impatto artistico incredibilmente
notevole che rende la violenza, un’arte meravigliosamente contemplativa.
“Chi si aspetta un film di facile
visione che eviti pure il mio cinema. O con me o contro di me.” – Nicolas
Winding Refn
Anche qui mi trovo d'accordo. NWR sta ponendo il suo standard molto in alto, e si nota sempre di più. Maestoso.
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