A quanto
pare il Western è tornato alla ribalta. Quentin
Tarantino è riuscito nell’impresa di far tornare nelle sale
cinematografiche un genere ormai morto e sepolto da anni. Ennesimo esempio del
fatto che il caro Tarantino non è uno che segue le mode ma le fa tornare
dall’oltretomba più nuove che mai.
Come dicevo,
il caro Quentin è riuscito a far risorgere un genere che aveva, praticamente,
detto tutto e che già al tempo si era riciclato dando nuova linfa al genere,
grazie a Leone con lo “Spaghetti-Western”. Se una decina di
anni fa Tarantino era riuscito, in parte, a portare in occidente la cultura dei
film orientali, possiamo affermare che, ora, sia riuscito a riportare in auge
anche il Western.
Dopo quei
due mezzi capolavori di Tarantino, un regista sconosciuto come S. Craig Zahler,
alla sua opera prima, decide di intraprendere una strada tortuosa e complicata
dirigendo proprio un western.
L’idea alla
base è molto interessante: un western puro al 100% (e non un thriller con ambientazioni western alla “The Hateful Eight”) con delle tinte
horror alla “Cannibal Holocaust”.
La macchina
da presa viene usata bene da Zahler, specialmente in campo aperto dove riesce a
dare un tocco davvero molto elegante con delle inquadrature a queste vallate
sterminate e questi canyon impervi che accompagnano i protagonisti della storia
per gran parte del film.
Quattro
personaggi interessanti, misteriosi, che il regista riesce a farceli inquadrare
abbastanza velocemente presentandoceli in una 20ina di minuti.
Abbiamo il
fu’ Boia di “The Hateful Eight”, Kurt
Russel, che qui invece è lo sceriffo di questa cittadina molto polverosa
dal nome speranzoso Bright Hope; poi
c’è il suo vice, interpretato da un bravissimo Richard Jenkins, un po’ svitato con qualche anno sul groppone; c’è
un misteriosissimo pistolero caratterizzato da quest’aplomb british, interpretato dal buon Matthew Fox, che ricorderemo nei panni di Jack Shephard sull’isolapiù amata del mondo; e per finire
c’è Patrick Wilson, che qualche anno
fa andava a fare il “ghostbuster” più professionale insieme a sua moglie, e
soprattutto con delle tinte molto più dark e meno comedy in “The Conjuring” e che qui interpreta il
marito, zoppo, di una donna rapita da questa tribù indiana dedita al
cannibalismo.
Con questi
quattro personaggi così variegati è difficile sbagliare il colpo in canna, ed
infatti Zahler non l’ha fatto... però avrebbe potuto fare meglio.
Belle le
inquadrature panoramiche di queste vallate e di questi sontuosissimi canyon che
diventeranno fin da subito i compagni silenziosi dei quattro sparvieri.
Carina la
fotografia con pochissima saturazione e, in alcuni casi, forse molto, troppo,
pulita per il tipo di film che è stato girato, con tutta questa polvere, questa
terra arida, e questo sangue, soprattutto nel finale pulp.
Molto meno bene
il timing. Un film di due ore che se
fosse stato tagliato di una mezz’oretta avrebbe guadagnato almeno un voto in
più. A metà film ci sono state scene troppo lente, troppo dilatate che annoiano
a dismisura aggiungendo poco o nulla alla pellicola, facendo scendere il ritmo
in maniera impressionante molto più del dovuto.
Ed è, alla
fine, questo il vero ed unico neo della pellicola, che però si sente molto
nell’economia generale del film: la dilatazione inutile e superflua del tempo.
Peccato perché la suspence, in
generale e soprattutto nel finale, c’è ed è dosata veramente bene, come anche
lo stesso gore che non è per niente
eccessivo e gratuito ma ben giustificato ed i cannibali tutti impolverati,
sporchi, selvaggi, sono rappresentati assolutamente bene.
Un film che
comunque sia consiglio, soprattutto agli amanti del genere, ma che con qualche accortezza
in più sarebbe potuto diventare una piccola perla e non un film che molto
probabilmente ci scorderemo in tempi molto brevi se non per qualche piccola
trovata.
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